giovedì 17 maggio 2007

Il Ragno in crisi

"Da un grande potere derivano grandi responsabilità".
Sam Raimi regista della trilogia ragno ormai arrivato al terzo,dovrebbe saperlo,invece no.
Con il primo capitolo, Raimi per la sua eccellente abilità ha ricevuto un potere creativo-economico, che comportava un enorme responsabilità in caso vi sarebbero stati dei seguiti.
La responsabilità stava nel condurre con maestria, e ancor più con attenzione i capitoli successivi.
In questo Spider-man 3 la ragnatela se pur incattivita si sgretola.
E lo fa abbandonandosi alla buona ricetta del minestrone delle idee e immagini classiche dei super eroi.
Il lato oscuro (escamotage per introdurre vostra signoria Venom), la posa davanti alla bandiera, la figura del maggiordomo, il rapporto amoroso compromesso ecc..
TUTTO già ViSTO!
Ma nel minestrone un sapore nuovo che ci porta a dire "non è male", c'è. Lo troviamo nella figura, non molto rilevante nel fumetto,dell'uomo sabbia.
L'unico personaggio che riesce a farci provare qualcosa di forte.
La maestria rimane ma l'attenzione sfugge nel budget, nella ripetizione, nel voler stupire.
Se pur fiacco Spider-man rimane comunque Spider-man.
Dave

La situazione

Prima di iniziare,voglio fare i complimenti al mio collega Filippo Piva, per il lavoro svolto sul cinema indiano. Un lavoro molto impegnativo, ostico sia per la ricerca delle notizie, sia per la difficoltà di sintetizzazione in quanto il cinema indiano è un cinema molto grande.
Comunque vi terrà aggiornati più avanti con nuove notizie o approfondimenti.

Ma torniamo all'attualità delle sale.
Il periodo cinematografico inizia a farsi incandescente.Sbarcheranno i pirati dei caraibi, i Transformers atterreranno sul pianeta, le Ninja Turtles si son decise ad uscire dopo millenni dalle fogne e Quentin Tarantino ci sottoporrà alla sua Death Proof. Ah!..dimenticavo i fantastici 4.
Ma antecedente a loro,tessendo la sua tela, bensì la terza, è arrivato Spider-man.
Chi batterà il suo record di incassi?
La sfida è iniziata,le scommesse sono aperte, vinca il migliore!
E voi per chi fate il tifo?

Dave

mercoledì 9 maggio 2007

Cinema indiano cap.3 : "Il cinema d'autore"

Il cinema d’autore indiano si classifica come qualcosa di estremamente elitario e per nulla commerciale. Tre sono i grandi registi di queste produzioni:
- Satyajit Ray, il più importante, di cui parleremo ampiamente in seguito;
- Mrinal Sen, regista bengalese considerato padre della “Nouvelle vague” indiana; ha trattato tematiche sociali molto scottanti ed ha accusato Ray di essere troppo quietista;
- Ritwik Ghatak, regista maledetto e deviante, spesso schiavo di alcol e droga; diresse pochissimi film tra gli anni ’60 e ’70, di cui solo 6 possono essere realmente considerati importanti. Fu insegnante di cinema all’accademia di Puna e formò i registi più importanti dei decenni successivi.

Come detto prima, Satyajit Ray è considerato in assoluto il più significativo esponente di questo nuovo modo di fare cinema. Nato a Calcutta nel ’21 da una famiglia borghese, frequenta l’università fondata dal poeta Tagore, che plasmerà la sua idea di una possibile unione tra oriente ed occidente basate sulle leggi dell’umanesimo. Esordisce dapprima come grafico pubblicitario, e soltanto in un secondo momento si dedica alla direzione della sua prima pellicola, che inaugurerà la trilogia dedicata ad Apu.



Ray resterà folgorato dalla visione di due pellicole del neorealismo italiano: “Ladri di biciclette” di De Sica e “Roma città aperta” di Rossellini. Cercherà così di creare film molto simili a questi, seguendo la filosofia del non-evento e dipingendo la vita reale della gente indiana per come si presenta, senza le finzioni e le enfasi dei prodotti bollywoodiani. Naturalmente questa ardita decisione causa al regista non pochi problemi nel trovare finanziamenti per le sue opere: Bollywood si dimostra del tutto disinteressata ai suoi progetti, e la NFDC non era ancora stata creata. Per questo si vedrà costretto a vendere i beni di famiglia ed i gioielli della moglie per ultimare le riprese del suo primo film.

Nel ’47 Satyajit Ray fonda il primo club cinematografico dell’India, dove appassionati di tutto il Paese potevano riunirsi per guardare e commentare le pellicole più belle di tutto il mondo. Nel ’49, poi, si mette a disposizione del regista francese Jean Renoire durante le riprese del film-documentario “Il fiume”: da qui imparerà le tecniche della regia che gli saranno tanto utili in seguito.

Il successo della trilogia di Apu sarà immenso. Dopo il trionfo del primo capitolo, anche le difficoltà di produzione verranno meno. Ray riceverà premi da ogni festival del pianeta, da Berlino a Cannes, fino all’Oscar alla carriera pochi giorni prima della sua morte, nel '92. Anche per quanto riguarda gli attori prenderà esempio dal neorealismo italiano: tutti scelti dalla strada, con rare eccezioni. Importantissima infine la colonna sonora, eseguita dal più grande suonatore di sitar di tutti i tempi, il maestro Ravi Shancar. Le immagini avranno infatti uno strettissimo legame con i suoni, che spesso sostituiranno le parole nelle scene più intense della narrazione.

Filippo

martedì 8 maggio 2007

Cinema indiano cap.2 : "Da Bollywood al Middle-Cinema"

La situazione attuale in India è molto diversa. I problemi energetici di 30 anni fa sono stati quasi completamente risolti, permettendo la nascita e lo sviluppo di una televisione con 7 canali nazionali e 47 regionali. Ma anche altri aspetti della vita mediatica sono in evoluzione: ad una crescente produzione di cinema d’animazione, si affianca un ricchissimo mercato di videogiochi.

Eppure l’industria cinematografica indiana si mantiene ad altissimi livelli già dagli anni ’40.
Il primo lungometraggio in assoluto risale al 1913 e porta il titolo di “Re Harischandra”: un film religioso, dunque, apre la storia del cinema made in India.

Tre sono i filoni portanti delle produzioni bollywoodiane:
- Religioso-mitologico;
- Storico;
- Commedia amorosa.
Sin dall'inizio il cinema indiano ha potuto godere di co-produzioni internazionali. Sempre negli anni ’40, inoltre, sono nate le principali Major, tra cui citiamo a titolo esemplificativo la Bombay Talkies.

Vediamo ora un altro classico film di produzione bollywoodiana, ovvero “Andaz”. Anche questo è un prototipo della commedia romantica, ambientato in un’India da sogno, ricca e decisamente occidentalizzata. Da notare l’importanza del ruolo femminile: la storia si configura infatti come un triangolo amoroso con la figura di lei al centro, interpretata dall’irriverente attrice Nargis, una vera e propria icona degli anni ’40 e ’50.

In contrasto con le usanze che imponevano alle donne il Sahari, la protagonista indossa rigorosamente abiti occidentali, presentandosi sulla scena vestita da cavallerizza. La trasgressione degli abiti, tuttavia, è solo un piccolo sentore dell’irruenza e dell’emancipazione del personaggio in sé. La donna si invaghisce infatti dell’ospite del marito, ma si ferma sempre un passo prima del tradimento vero; si macchierà dell’omicidio dello stesso amante, verrà processata e dichiarata colpevole.

Durante il processo, l’accusata tenta un mea-culpa nel tentativo di rinnegare anni trascorsi nel tentativo di rendersi indipendente, cercando di esaltare i buoni costumi della tradizione indiana che vedono la donna sottomessa e fedele casalinga. Ma questo discorso non convince, né i giudici della finzione, né gli spettatori reali del film, che trovano ugualmente in Nargis un richiamo forte verso un’emancipazione femminile.

Nel ruolo del marito ritroviamo Raj Kapoor, lo Charlot indiano, che oltre ad essere un grande attore, ha saputo dirigere diversi film in qualità di regista. L’amante, invece, è interpretato da Dilip Kumar, un volto che grazie a questo film entrerà indelebilmente nell’immaginario collettivo.

Non a caso la commedia “The waiting room” di Tanica Gupta, interpretata nel 2000 al National Theatre di Londra con la partecipazione dell’attrice indiana Shabana Azmi, racconta di una donna talmente attaccata alla vita da non accorgersi di essere morta. Dio, per convincerla del suo trapasso, le manderà nient’altro che lo spirito di Dilip Kumar, l’attore di cui era pazzamente innamorata da ragazzina.

Il film si apre con l’amante che salva la donna appena prima che il cavallo imbizzarrito la faccia precipitare da un burrone. Spesso Dilip Kumar si troverà a suonare il pianoforte, in un ambiente dall’arredamento tipicamente occidentale: eppure le note che si possono sentire sono quelle del sitar e di altri strumenti indiani. Questo ad indicare un grande sforzo di occidentalizzazione, ma anche una paura recondita di tradire la propria tradizione: il costume troppo anglicizzato può infatti portare alla rovina, come suggerisce la morale di fondo della vicenda.

Kaala pattar”, tradotto “La pietra nera”, è invece un film bollywoodiano di fine anni ’70, ambientato in una miniera di carbone. Il protagonista è un ex capitano di marina, che per espiare delle precedenti colpe, decide di andare a lavorare in miniera. Si accorgerà presto, però, di un grave pericolo per la sicurezza dei suoi compagni, e non esiterà a mettersi contro persino al proprietario dell’attività. In questo caso abbiamo un lieto fine.

Il protagonista è Amitabh Bachchan, l’attore più conosciuto del mondo, che in questa pellicola, a dire il vero non troppo brillante, si ritaglia il perfetto ruolo di giovane che si ribella contro le ingiustizie. Una vera icona per tutti gli indiani. Si introduce tuttavia un tema insolito per Bollywood: quello della denuncia sociale.

Tema che invece costituisce il perno centrale della produzione d’autore, che vede in Satyajit Ray il suo esponente chiave. Non ci sono balletti, non ci sono canti, il lieto fine non è scontato. Per questo le Major di Bollywood non contribuiscono alla produzione di queste pellicole di carattere elitario e per nulla commerciale, aiutate invece dall’indiana NFDC, National Film Davelopment Corporation.

Tra queste due realtà del tutto opposte, si inserisce il Middle-Cinema o Crossover Cinema, che cerca una via mediana tra la realtà commerciale di Bollywood e l’impegno serio degli autori. Una produzione che tocca problemi reali, dunque, ma con un’attenzione anche al fruitore, che deve poter comunque trovare nella visione del film un momento piacevole.

Bhumika”, tradotto “Il ruolo”, è un film del 1977, diretto dal regista pubblicitario Shyam Benegal. La protagonista, interpretata dalla bravissima Smita Patil, morta all’improvviso a soli 31 anni, è un’attrice che si divide tra i personaggi ricchi e felici che interpreta sul set e la tristezza che la accompagna nella vita sentimentale.

Il film si costruisce su tre narrazioni, quella del set, quella reale e quella dei flashback che ci consentono di ripercorrere il passato dell’attrice. Il risultato finale è una pellicola che gioca con i generi, una sorta di post-moderno ante litteram con richiami al meta-cinema. Il messaggio finale sembra essere un chiaro allarme: “Il cinema è solo finzione”.

Tutto si apre con una tipica scena di danza bollywoodiana. Ma ecco entrare in primo piano le telecamere, e la magia di finzione si rompe inesorabilmente. L’agente dell’attrice vorrebbe farle da compagno nella vita reale, ma lei lo respinge. Frequenta così numerosi uomini, ma tutti quanti finiranno col deluderla.

Importante è la figura di un regista, interpretato dall’attore impegnato Naseruddn Shah, con il quale la giovane protagonista si intrattiene in una lunga discussione durante un viaggio in macchina. In questo dialogo si tratta di morte, negando e deridendo la reincarnazione: una vera e propria bestemmia per il pubblico indiano degli anni ’70.

Inizia così una cordata di film indipendenti da Bollywood, ma con un occhio di riguardo al mercato. Il cinema impegnato può anche non essere noioso: per questo acquista importanza il ruolo dello sceneggiatore, fino ad ora considerato di poco conto. Il Crossover cinema è ritenuto attualmente la corrente portante dell'industria indiana, con un grande successo di critica e di pubblico grazie a nomi del calibro di Mira Nair.

Filippo

Cinema indiano cap.1 : "Bollywood"

Dal 1971 in India vengono prodotti più film che negli Stati Uniti. I numeri sono chiari: la media annuale di pellicole prodotte oscilla tra le 800 e le 1200 (record del 2002). Sei milioni sono invece gli addetti ai lavori in questa grande industria cinematografica. Gli incassi dell’ultimo anno ammontano a 8,7 miliardi di dollari e di questi il 25-30% deriva dalle esportazioni in altri Paesi (Inghilterra, Giappone, Canada, Australia, etc).
Stiamo parlando di Bollywood, la Hollywood di Bombay. La città oggi si chiama Mumbai, ma il nome di questo fenomeno culturale è comunque rimasto invariato (si parla anche di Tollywood, quando si intende la produzione cinematografica in lingua Telegu).

Cerchiamo dunque di capire i motivi principale del grande sviluppo del cinema in India. Fino a 30 anni fa, l’analfabetismo era diffuso in tutta la popolazione; inoltre diverse zone del Paese avevano grandi problemi di rifornimento energetico, pertanto la televisione era un media ancora poco diffuso.
Il luogo d’incontro della comunità diventava così il cinema, creando una realtà che ha portato all'attuale pubblicazione di 600 riviste su questo argomento. Il cinema diventa così elemento fondamentale per la globalizzazione degli abitanti indiani.

In Italia non abbiamo l’opportunità di vedere questi film, per uno scarso interesse da parte dei distributori del nostro Paese. Eppure già negli anni ’30 furono presentati a Venezia, con buon success, alcuni film indiani d'autore.
Qualche curiosità. Nel 2000 l’emittente inglese BBC ha condotto un sondaggio planetario chiedendo chi fosse l’attore più famoso del mondo. A sorpresa, il vincitore è risultato l’indiano Amitabh Bachchan, un’icona di Bollywood con più di 100 film all’attivo, che ai nostri giorni conduce con successo la versione indiana di “Chi vuol essere milionario?”.

Il cinema indiano ha origini antiche. Nasce da un assistente dei fratelli Lumière, che si recò in India per mostrare alcuni cortometraggi realizzati. Pochi mesi dopo iniziò la produzione di film.
Con l’avvento del sonoro, arrivò anche il problema del linguaggio da utilizzare. Quale scegliere per un Paese che al suo interno ospita 14 lingue ufficiali e centinaia di dialetti? La scelta ricadde su la lingua Hindi, opportunamente semplificata per essere comprensibile ai più. E con un importante supporto da parte della musica.

I film di Bollywood, infatti, sono quasi sempre musicali. È facile ritrovarvi una fusione di elementi teatrali e pittorici: da una parte vi è infatti un forte influsso del teatro-danza indiano, noto per le rappresentazioni di poemi religiosi; dall’altra la forte tradizione pittorica, con i caratteristici colori vivaci e le tinte calde che contraddistinguono il vestiario indiano.
Il cinema ha saputo fondere questi elementi trovando nella commedia musicale una forma d’espressione ideale.

Ovviamente, non tutto i film indiani sono così: abbiamo anche alcune pellicole d’autore, ma in numero decisamente limitato rispetto alla grande produzione in lingua Hindi. Il cinema popolare rimane in questo modo legato al sogno, all’amore ed al colore. Da qui lo scopo della fruizione, che deve unicamente divertire, svagare e far in qualche modo sognare.

Devdas” è il più classico film bollywoodiano. Giunto al terzo remake, con la partecipazione di Shah Rukh Khan e della bellissima Aishwarya Rai, questa pellicola ripresenta il più classico tema dell’amore che uccide. Devdas, ricco e bello, torna dagli studi in Inghilterra dopo 10 anni. A casa lo aspetta la sua fidanzata, nonché vicina di casa: inizialmente lui si atteggia a macho, ma presto non potrà fare a meno di manifestare a sua volta i propri sentimenti.
I ragazzi decidono di sposarsi, ma la famiglia di lui si oppone per differenze legate alle caste di appartenenza. Questo non fa cambiare idea a Devdas, ma la perfida cognata organizza una pubblica umiliazione della madre di Paro, la fidanzata, che reagirà rifiutandosi di sposarlo.
Paro verrà dunque promessa in sposa ad un anziano uomo, mentre Devdas cadrà nell’alcolismo.
Il tragico finale del film vede il ragazzo morire davanti alla casa della sua ex-fidanzata.

La pellicola dura più di tre ore e presenta in tutto 8 scene musicali (la media bollywoodiana è di 6). Importanti sono la lampada ad olio, simbolo dell’amore che non si spegne mai, ed il Mudra, il complicato linguaggio delle mani che si ripresenta di volta in volta nei vari balletti del film.

Diversa la storia di “Lagaan”, che prende il nome dalle tasse che i contadini indiani di fine ‘800 dovevano pagare come tributo agli ufficiali inglesi. Racconta di un villaggio che decide di ribellarsi sfidando gli invasori ad una partita di cricket. I giocatori indiani vengono segretamente allenati dalla sorella di un ufficiale inglese, che li aiuta ad imparare le regole e dunque a vincere: inoltre la squadra del villaggio viene assemblata senza badare alle caste, e questo è un importante messaggio culturale. Nel 2002, viene nominato all’oscar come “miglior film in lingua straniera”.

Molto importanti in questi casi sono le colonne sonore, che non solo determinano il successo (o l'insuccesso) dei film, ma le cui vendite costituiscono anche i 2/3 degli incassi totali delle industrie musicali indiane. Per questo i compositori sono tanto importanti quanto i registi.

A volte è necessario che gli attori cantino in playback su un brano eseguito da un cantante professionista. Una menzione a parte riguarda le voci femminili, il più delle volte acutissime: questa è una tradizione radicata negli anni che si rifà agli anni ’40, quando i vari problemi di riproduzione audio obbligavano le donne a tenere toni di voce decisamente acuti.
Filippo

Speciale: "Cinema indiano"

Quando pensiamo all'India, il più delle volte, richiamiamo alla nostra mente immagini di grandi elefanti, veli colorati, donne con il pallino rosso in mezzo alla fronte. Certo, l'India è anche questo, ma non solo.
Grande è infatti la storia che sta alle spalle del cinema indiano. Alcuni studenti dello IULM hanno potuto frequentare le lezioni sull'argomento tenute dal professor Marco Restelli. E allora inauguriamo il primo speciale di Caleidocinema con alcune importanti informazioni che ci sono state date durante questo breve, ma intenso seminario.

Filippo

domenica 6 maggio 2007

Aishwarya Rai, la principessa d'oriente

L'India le ha donato una dolce pelle ambrata, due smeraldi sotto le palpebre ed una folta chioma color mogano. E Julia Roberts, che si sa, ha l'occhio lungo, ha subito confermato: "E' lei la donna più bella del mondo". Aishwarya Rai, nata il 1 novembre 1973, è una bellezza del tutto esotica, elegante quanto basta per la copertina di Vogue, e sexy quanto basta per far cadere il mondo ai suoi piedi.
Più di 20.000 i siti attualmente dedicati a questa meraviglia in carne ed ossa. Ottimo, considerando che fino ad ora si è praticamente "limitata" al titolo di regina di Bollywood.
Eppure sembra che l'ascesa di Aishwarya sia ormai cominciata. Progetti che fioccano da ogni parte del mondo, copertine di moda e di cinema, un'esperienza da giurata a Cannes nel 2003: la Rai, già Miss Mondo nel '94, ha tutte le carte in regola per conquistare noi infedeli di oltreoceano.
Ma niente cinema commerciale. Già, perchè sarà pure bella, ma anche tosta quanto basta per dire di no alla parte di Elena in "Troy", per rifiutare il ruolo di protagonista in "Mr and Mrs Smith" e per gridare un fragoroso "no" ad un cameo in "Hitch". Niente di tutto ciò ha convinto la principessa indiana: la vedremo invece fianco a fianco con Meryl Streep nel più serio "Chaos", di Colin Serreau. Per la serie "belle ed impegnate".
Filippo